martedì 14 ottobre 2014

Editoriali (o quasi) mode on - parla una ex allieva del corso Il Lavoro editoriale

La settima edizione del Lavoro editoriale partirà a marzo 2015. Siamo alle prese con calendario, colloqui, conti: tutte cose importanti ma, poiché siamo nostalgici, abbiamo chiesto alla nostra ex allieva Claudia Papaleo di raccontarci la sua versione del corso appena concluso.
Ed è una versione ad alto tasso di entusiasmo e commozione.
Buona lettura!






Editoriali (o quasi) mode on
di Claudia Papaleo


Qualche sera fa ho ricevuto una patata bollente, sotto forma di mail, in cui mi si chiedeva di scrivere qualcosa sul Lavoro Editoriale 2014. Ho detto di sì, e ora sono seduta davanti allo schermo con le dita sulla tastiera, un pacchetto di Camel da venti (che era da venti) e un misuratore di pressione.
Bene, tolto di mezzo l’incipit, posso dire che i cinque mesi del corso sono iniziati con una frase di Marco Cassini che, a rileggere la cronologia di WhatsApp (nel gruppo: Editoria de profundis), faceva più o meno così:

«Il seme del male che vorrei germogliasse dentro di voi è quello di sapere sempre tutto, chi ha pubblicato cosa, in quale collana, perché e quando»

Da quel primo giorno io e altri undici, simpatici casi umani armati di tanta passione, tremarella, sano disagio e voglia di fare bilanciata all’incapacità di non sparare stronzate invereconde – abbiamo passato i nostri pomeriggi in quel di via della Polveriera. Il piano era di farci incontrare editor, direttori editoriali, scrittori, uffici stampa, redattori, traduttori, redattori web, agenti, organizzatori di festival, commerciali, librai, e chiunque avesse intenzione di innaffiare quel seme con gli idranti. Così, di volta in volta, abbiamo barcollato, e barcollato parecchio, disorientati dalla quantità di libri, case editrici, riviste, nomi e anfratti dell’editoria che erano sfuggiti alla nostra fame di lettori compulsivi (ma con una vita sociale). A tutta prima, al suono di parole come distribuzione, sell in, sell out, e costi vivi, abbiamo avvertito il bisogno di sentire la voce di nostra madre e in più di un caso, quando ci veniva chiesto di impaginare con InDesign, abbiamo pensato di pagare qualcuno (decidete voi se un nerd o uno psicologo). Ci hanno gentilmente informato del fatto che per sapere chi ha pubblicato cosa, le copertine non bastano, perché dietro un solo titolo c’è tutta la gente che ho nominato poco fa, che è tanta e di rado sotto la luce dei riflettori. E qui, quoto Valentina Aversano, che ironizzando un po’, ma neanche troppo, ci disse:

«Se volete lavorare nell’editoria, rimanete lettori dentro e stalker fanatici fuori»

Per essere sicura che dopo quelle parole non avremmo opportunamente svagato, Rachele Palmieri (tutor dei corsi minimum fax, madre, compagna di bevute, fervida sostenitrice della giustezza di Virginia Woolf, Lady di Ferro del biliardino e della guerra al refuso) ha pensato bene di farci fare un E-book. Nello specifico, un E-book che raccogliesse le interviste agli addetti ai lavori di otto case editrici, chiamati a raccontarci una collana che ritenevamo essere emblematica della loro identità. Così è iniziato il pedinamento tutto casalingo davanti ai computer, per capire come diamine si chiamassero queste persone, quale fosse la loro linea editoriale e come avremmo potuto contattarle senza finire nella cartella spam, tra offerte di vibratori Hi-tech e viaggi in Papuasia. Ci siamo strutturati come redazione (affidandoci, ma solo a volte, al gioco della sedia), abbiamo studiato, buttato giù domande, editato, sbobinato, pensato alla copertina, al titolo, alla comunicazione e, essendo gente seria, abbiamo fatto tutto in ritardo. Naturalmente, ci siamo rimpallati mail mostrando civile senso di colpa, e grande arguzia nel lasciare da parte gatti e morte al momento di imbastire scuse. Fatto sta che la cosa ha preso forma, si chiama Dietro le quarte e, se tutto fila liscio, a breve la presenteremo e diffonderemo gratuitamente col marchio minimum fax. Non annuncio date, badate bene, solo perché le regole della suspense lo vietano, e perché gli spoiler possono determinare la fine dei rapporti sociali molto più che una partita a Risiko finita male.
Ma torniamo a noi, perché alla fine il punto di quello che sto dicendo è che questi mesi sono stati viscerali, penetranti, deliranti come un pezzo psichedelico che gira per trenta minuti prendendo a calci tutto il resto. Il punto è che ci hanno insegnato non solo chi c’è dietro a un libro, ma come lo si pensa, lo si tocca e lo si deve guardare con l’occhio affamato del voyeur, di chi si cala senza imbracature nel dettaglio e sa che quello che sa non è mai abbastanza, perché l’editoria è un mutante: ti rendi conto di che pasta è fatta oggi e domani si ripresenta con idiosincrasie, deformità, meraviglie e complessità incalcolabili. Soprattutto, ci hanno fatto capire che questa è una sfida eccitante, adrenalinica, per cui servono l’umiltà e la cieca spavalderia di chi si vede una porta chiusa in faccia e suona a un altro citofono attaccandoci, se necessario, un chewingum.

A questo proposito, forse, dovrei scrivere dove mi ha portato tutto questo, (tralasciando la bottiglia di vino). Ebbene, mi occupo, non so bene per quanto, di ufficio stampa e redazione per una casa editrice di graphic novel e narrativa che si chiama Tunué, e nel frattempo valuto dattiloscritti un po’ per questo un po’ per quello. Insomma, se dovessi presentarmi in due parole e riassumere quello che faccio, penso che, citando Colazione da Tiffany, direi: Salve, sono Claudia Papaleo e sono in transito.

giovedì 2 ottobre 2014

Noi orfani di Steve Jobs, ovvero il meraviglioso mondo degli aspiranti startupper.

Un reportage di Costanza Galanti apparso su un numero speciale
curato da Sbilanciamoci per il Manifesto. 

Costanza Galanti ha partecipato alle prime due edizioni del laboratorio di Literary Non Fiction, a cura di Christian Raimo e Cristiano de Majo.
Il laboratorio sta per ripartire, a Roma, nella speranza di continuare a leggere cose così interessanti.








Sono le quattro di notte nell’ex base Nato al limitare della faggeta di Allumiere sui monti della Tolfa, e nella sala attrezzata per il proiettore siamo seduti su comode poltroncine con le Red Bull, una teiera e dei biscotti. Vicino a noi il nostro graphic designer al computer cura gli ultimi dettagli della presentazione che domani proietteremo davanti ad una giuria di esperti di startup e finanziatori. Le immagini accompagneranno il discorso del mio compagno di team che si cimenterà in quello che viene chiamato il «pitch»: un discorso di quattro o sette minuti che mira ad attirare l’attenzione degli investitori sul tuo prodotto. In particolare, nel caso delle startup, imprese nuove che introducono una soluzione di forte originalità e che quindi a fronte di un alto rischio di fallimento hanno le potenzialità di crescere vertiginosamente, l’attenzione degli investitori è concentrata sulla «scalabilità del modello di business» – appunto, la prospettiva di una crescita che permetta dopo una manciata d’anni di vendere le azioni con ampi margini di guadagno.
«Ma come, non hai mai visto il pitch di Steve Jobs per il primo iPhone?!». Le ore della notte si sfilacciano, e dentro le smagliature crescono le visualizzazioni dei video su YouTube. E siccome siamo ad un campo pensato per promuovere la cultura imprenditoriale tra i giovani, un campo dove Apple e Facebook vengono nominati più di quanto Dio venga invocato nei ritiri di un gruppo parrocchiale, i video di Steve Jobs sono il genere di video che si riguarda insieme – o, nel mio caso, si vede per la prima volta. «A widescreen iPod with touch controls, a revolutionary mobile phone, a breakthrough Internet communication device», dice Jobs presentando l’iPhone al mondo, e poi ripete questa descrizione tre volte, che si moltiplicano come un’eco nella nostra stanza dai soffitti alti con travi di legno, perché gli altri ragazzi lo sanno a memoria, e lo ripetono anche loro.
Prigionieri del successo Il pubblico di Jobs applaude e fischia per l’entusiasmo. «Non siete in imbarazzo per loro? Non vi sembra umiliante strillare davanti a qualcuno che vi vuole vendere un prodotto?», chiedo io. No, macché. Forse non ho capito la portata rivoluzionaria di quello che sta succedendo su quel palco, insistono.
Che io non capisca molte delle cose che ho intorno è ormai, dopo quattro giorni di campo, piuttosto chiaro anche a me: ho un Mac e un iPhone e non ho mai preso sul serio la leggenda del cui fascino subisco l’onda lunga; rabbrividisco al racconto dei loro genitori che strisciano il codice a barre di ogni singolo detersivo e vasetto di yogurt estratti dalla busta della spesa con lo smartphone, in un baratto di informazioni sulla propria dispensa in cambio di premi, ma lascio i miei dati leggera ad ogni connessione wifi gratis mi capiti di incontrare. In questo senso, sono forse la più sprovveduta dei venti fra ragazze e ragazzi, dai diciannove ai trentuno anni, selezionati per partecipare all’InnovAction Camp, la cui formula prevede un’alternanza di lezioni frontali su economia, innovazione e mercato delle startup ed intenso lavoro di gruppo. Il campo, della durata di cinque giorni, è organizzato da InnovAction Lab, associazione non profit che si propone di mettere in contatto gli studenti con il mondo degli investimenti privati, e si svolge in una struttura dell’università Roma Tre; tutto è finanziato, con tanto di vitto e alloggio, dai supporter JP Morgan Chase Foundation, Microsoft e Fondazione Cariplo insieme con il programma «Startup Revolutionary Road», e World Wide Rome. Dal campo e della sua versione lunga, il laboratorio di tre mesi, sono uscite, a partire dalla fondazione nel 2011, trentaquattro startup, che hanno ricevuto in totale circa quattro milioni di euro di investimenti privati.
Le istruzioni che abbiamo ricevuto per la formazione dei gruppi che lavoreranno ognuno su un’idea di startup recitano: almeno una ragazza, almeno un ingegnere informatico, non più di due economisti, per un totale di quattro membri. La sera del primo giorno, dopo un pomeriggio di esercizi preparatori al rugby propedeutici al team building , uno di noi ha collegato il proprio computer al proiettore e in un file Excel ha inserito le nostre competenze che a turno gli dettavamo. Sul muro comparivano man mano «web design», «programmazione», «quantitative analysis», «social media marketing», «marketing», «stock research analysis», «grafica», «management». Alcuni hanno aggiunto: «Ho una passione per il food», «Sono appassionato di wine».
Io ho ventun anni, studio antropologia culturale e quando arriva il mio turno fingo sicurezza e dico: «Skill 1: metti… “metodo etnografico», mentre per lo skill 2: metti “scrittura”». Fra i ragazzi c’è chi si deve ancora laureare, c’è chi era arrivato a guadagnare seimila euro al mese gestendo le puntate dei giocatori di poker online, prima che il portale Venice Poker fallisse, e c’è chi ha già la propria startup e conosce bene l’ecosistema italiano a queste collegato. Fra questi ultimi, due ragazzi che si sono appena conosciuti e insieme hanno già partorito un’idea che ci propongono: creare una piattaforma dove trovare graphic designer che migliorino la veste grafica e l’organizzazione delle tue slide.
A cena avevo parlato con una ragazza che stava sviluppando una piattaforma dove geolocalizzare dal proprio smartphone tutto ciò che avrebbe interessato chi ricercava un’alta qualità della vita – cibo a chilometro zero, spazi di coworking, affitto di biciclette, luoghi dove fare sport. Le avevo proposto di metterci nello stesso gruppo e sviluppare, per i giorni del Camp, squisitamente a scopo di esercitazione, una sorta di appendice al suo progetto: qualcosa che avesse a che fare con i quartieri e meno con il turismo – una sorta di guida a uso interno degli abitanti per i luoghi di interesse, simbolici, della microstoria della zona; oppure un sistema per collegare virtualmente le librerie indipendenti, in un catalogo disponibile su un’app, comprensivo di riviste letterarie straniere, troppo costose da ordinare singolarmente dall’Italia. Le avevo parlato di «Lìberos» – l’organizzazione che in Sardegna ha messo in rete case editrici, librerie indipendenti, biblioteche, scrittrici e scrittori – e di «Port Review», l’edicola online di riviste digitali. Riflettevo anche che rendere tecnologici gli scambi di un quartiere non li rende necessariamente migliori, che in molti casi, senza adeguate discussioni e momenti di autorganizzazione e riflessione, i servizi di messa in rete dei vicini finiscono per diventare casse di risonanza per le vecchissime recriminazioni: avevo letto per esempio di persone senza fissa dimora prese di mira tramite sofisticati algoritmi di vicinato 2.0. La ragazza era stata molto gentile, ed io piuttosto insistente, ma era ovvio che ciò che le proponevo non le interessava: «io non faccio questa cosa ideologicamente », si era affrettata a puntualizzare. Aveva anche avuto l’eleganza di non farmi notare che nei miei progetti velleitari non c’era sicuramente l’ombra di un business plan scalabile.


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Avevo pensato allora che confondere cose che sentivo vicine con modelli di business che sentivo lontani mi avrebbe creato confusione – che sarebbe stato più chiaro a questo punto lavorare sulla piattaforma per ritoccare le slide proposta dai due ragazzi, piuttosto che finire per progettare a tavolino una gentrificazione.
Sono tre giorni e mezzo quindi che io, Filippo, Francesco e Massimo lavoriamo sul progetto della startup delle slide, e prepariamo il pitch secondo lo «schema standard» che ci viene illustrato con una lezione apposita.
Filippo, che lavora con le stampanti 3D, ha studiato grafica al politecnico di Torino, e ci mette in contatto con altri grafici per capire le tariffe alle quali sarebbero disposti a lavorare. Massimo e Francesco cercano i potenziali competitori, per esempio siti che disegnano i loghi per le aziende, e li studiano per farsi un’idea del modello di business di ciascuno di loro. Poi considerano le opzioni per il nostro modello, discutono sull’entità dell’investimento iniziale di cui avremmo bisogno e buttano giù una tabella stimando i tempi di lavoro da qui a un anno. Cercano di coinvolgermi in tutto questo, ma hanno troppa esperienza perché io possa dare un contributo significativo.
Massimo, infatti, sta per lanciare un portale sui cui sarà possibile recarsi per comprare online oggetti per le ong; la sua startup, che ha progettato il portale, guadagnerebbe prendendo una percentuale sugli acquisti agli store online ai quali reindirizza. Ha frequentato un master presso HFarm, un acceleratore di startup a Roncade in provincia di Treviso, grazie al quale è entrato in contatto con persone importanti per lo sviluppo della sua idea come il cofondatore di Banca Etica. Francesco invece è di Catania, dove Telecom ha una delle sedi di «Working Capital», il programma di accelerazione di startup di Telecom Italia che mette a disposizione dei ragazzi una rete di esperti e degli spazi fisici accoglienti e tecnologici dove lavorare in gruppo alle proprie idee. È qui che Francesco ha conosciuto i ragazzi con cui ha fondato «Ganiza», l’app che gestisce il sistema di votazioni con cui i gruppi di amici numerosi scelgono l’attività con cui trascorrere la serata (la startup guadagna chiedendo una fee a ristoranti e locali ogniqualvolta questi vengano presi in considerazione durante la votazione). Quando è arrivato il primo finanziamento di venticinquemila euro aveva da poco deciso, contro il parere dei suoi genitori, di rinunciare al master in Business in Svizzera per il quale aveva passato le selezioni.
Tornando alla piattaforma delle slide, dunque, io mi limito a dire che se fossi un cliente mi piacerebbe vedere bene chi è il designer a cui affido il lavoro, che mi piacerebbe vederne il nome e il sito internet, e magari anche i suoi social network. Ma questa opzione, mi fanno notare i compagni, farebbe sorgere numerose controindicazioni, tra cui l’aumento del rischio di «cheating», cioè che cliente e grafico si incontrino al di fuori della piattaforma, sottraendosi così dalla fee del 10% che tratteniamo sul pagamento del grafico. Si decide quindi di optare per il meccanismo del «contest»: il cliente carica le sue slide, i grafici che vogliono candidarsi per il lavoro ne modificheranno una, e da queste prove il cliente potrà scegliere a chi affidare e quindi retribuire il lavoro completo.


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Allora, siccome ho detto loro che scrivo, pensano che almeno io sia brava a scegliere il nome dell’impresa: mi applico un po’, ma mi escono solo giochi di parole un po’ indiretti e qualcun altro esce fuori con il nome definitivo: «ReSlide.it». Infine, stabiliamo che sarà Massimo a parlare durante il pitch. 
Steve Jobs riusciva a non sembrare ridicolo durante i suoi pitch: aveva trasferito l’umiliazione di chi ha bisogno sul suo pubblico di consumatori desideranti. I nostri pitch però trattengono ancora l’umiliazione su noi che vendiamo – anzi, più propriamente, che ci vendiamo , presentandoci come un team su cui vale la pena investire. Infatti, nei pitch cosiddetti «di investimento», a differenza di quanto accade nei pitch di vendita in cui ci si concentra sul prodotto da acquistare, a guadagnarsi la fiducia deve essere prima di tutto il team. Come esempio ci vengono citati a lezione dei ragazzi che poco tempo fa hanno progettato un social network per camionisti. A nessuno importa di investire sui social network dei camionisti, ma i ragazzi sono stati contattati dalla Sony, interessata alla tecnologia che avevano sviluppato per usare i social network senza toccare il telefono mentre si sta guidando.
Durante il campo tutti e cinque i team ripetono il loro pitch due volte per ricevere i feedback degli altri ragazzi ma soprattutto degli organizzatori, e poi una terza volta, l’ultimo giorno, davanti ad esperti invitati da fuori, alcuni dei quali possibili investitori.
Ecco come si apre il nostro pitch: «ReSlide.it è la prima piattaforma di crowdsourcing che mette in contatto i designer con chi ha la necessità di rendere le proprie presentazione memorabili. Ogni giorno liberi professionisti e aziende usano presentazioni per vendere i propri prodotti e le proprie idee, o in momenti cruciali per l’organizzazione interna dei propri dipendenti. Ci riescono? Microsoft stima che il 90% delle presentazioni annoia la sua audience… Qua entriamo in gioco noi: Reslide.it è la piattaforma web che in 72 ore e 129 euro riorganizza testi e immagini delle tue slide – i tuoi contenuti, finalmente veicolati con l’incisività e l’efficacia che meritano». Ecco gli altri team: uno vuole «cancellare la paura di tutti i bambini» vendendo agli ospedali degli astucci che coprano con dei disegni le siringhe dei vaccini; un altro ha capito che «si può vendere il cielo» e ha progettato un portale per il turismo astronomico; «ti sarà capitato di essere un turista insoddisfatto!» intima un altro ancora, che vuole sviluppare un’app per farti vivere le mete delle tue vacanze «come uno del luogo»; «tutti possono essere social media reporter!» gioisce infine il team che offre a pagamento copertura sui social media a certi eventi.
 Le prime domande che ci si rivolge per incominciare a dare i feedback dopo ciascun pitch sono: «Qualcuno non ha capito cosa stanno facendo?», «Chi ci investirebbe?». A volte si alzano le mani. Poi altre mani alzate per chi vuole chiedere la parola e dare suggerimenti al team, al quale invece è imposta la regola di non poter rispondere alle critiche, di dover solo ascoltare e prendere appunti.
Carla, fra noi ragazzi, è quella che muove le critiche più puntuali: sembra allo stesso tempo un’editor e una regista che parla con i suoi attori. A noi dice cose come: «nella presentazione avrei voluto vederti più freddo, distaccato», «come fai a inglobare i designer nella piattaforma? Questa è una cosa che avrei voluto sentirti dire» e «secondo me il tempo è un driver sufficiente, mentre la voce “qualità delle slide” non mi piace». Le faccio i complimenti, e lei mi risponde che le piacerebbe ricevere feedback con lo stesso rigore che mette lei a formularli. Rimango zitta.


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I feedback degli organizzatori vogliono essere spietati, comunicati con degli interventi in cui la volgarità viene percepita da tutti come franchezza. I ragazzi in realtà ne sono esaltati e finiscono per cercare feedback sempre più duri: vogliono veramente capire come fare, nutrono fiducia negli organizzatori e riconoscono loro più autorità di quanta io abbia mai visto riconoscere ad uno dei miei professori all’università.
Immaginiamo un continuum dei discorsi in pubblico: ad un estremo i pitch, totalmente rivolti verso l’ascoltatore – chiari, omogenei, semplificati, pensati per non farti pensare, ogni minuto che ha alle spalle un’ora di preparazione – e dall’altro le lezioni dei miei professori di Lettere e Filosofia – in ritardo senza fornire scuse, con lezioni spesso improvvisate e sbrodolate, con interi segmenti uguali, cristallizzati in automatismi da una lezione all’altra, ma a volte complesse, come un regalo bellissimo ma molto difficile da scartare. Quasi in mezzo, ma più dalla parte dei pitch, possiamo collocare i seminari che seguiamo qui al campo. 
Le lezioni sono una dimostrazione di fiducia illimitata nei procedimenti induttivi: ci vengono presentati continuamente degli esempi, e «Noi non vi diamo soluzioni, vi diamo problemi da risolvere», è uno degli slogan più ripetuti. Poi, liste di sette elementi «perché è stato calcolato come il massimo di elementi che il nostro cervello riesce a ricordare in un elenco». Infine, apertura incredibile sulla propria esperienza: «Allora: io ho fatto startup di successo. I nostri investitori hanno fatto una caterva di soldi che voi ve li sognate», ma subito: «abbiamo anche fallito, bruciato soldi degli investitori».
 Il designer del mio team rimane affascinato in particolare da due storie, che tirerà fuori spesso mentre lavoriamo o parliamo del più e del meno per spronarci ad essere ambiziosi e creativi. Una è una sorta di parabola dei talenti ambientata a Stanford: una professoressa dà a ciascun gruppo cinque dollari, chiedendo di farli fruttare il più possibile. C’è chi compra una pompa per le bici, offre controlli gratis e poi fa pagare un dollaro il servizio a chi si scopre avere le ruote sgonfie; così raccolgono velocemente cinquanta dollari, finché stabiliscono che la donazione sarà libera, e allora quadruplicano i ricavi e ne fanno duecento. Poi, c’è a chi viene in mente di vendere il quarto d’ora che spetterebbe al proprio gruppo per parlare davanti alla classe ad un’azienda: ne trova una disposta a pagare seicentocinquanta dollari per quindici minuti con degli studenti di Stanford.
 La seconda storia è un mito di fondazione dell’ormai celebre «Airbnb», portale per l’affitto di case vacanza. I ragazzi della startup, ai primi passi, non riescono a trovare investitori disposti a conceder loro fiducia. Decidono allora di comprare pacchi di cereali, su cui stampano le facce di Obama e di McCain; siamo in campagna elettorale, e fuori dai comizi riescono a vendere queste scatole a cinquecento dollari, garantendo agli acquirenti che ne avrebbero devoluto la metà al candidato. «Non sappiamo con certezza come andrà la nostra startup, ma sappiamo vendere una scatola di cereali a cinquecento dollari», sembra abbiano detto poi ai loro investitori: non potevano dimostrare che il prodotto avrebbe funzionato, ma erano riusciti a dimostrare che loro erano le persone giuste.
I docenti sono sempre a disposizione, anche alle tre di notte. Rispondono gentilmente anche a me, che di solito esprimo perplessità. Ma se in risposta ai miei dubbi mi chiedono di sfilarmi gli occhiali, e avendo letto «Bulgari» mi raccontano l’edificante storia di Del Vecchio, da orfano a secondo uomo più ricco d’Italia, è solo perché ormai son capitata loro davanti al tavolo della cena; non sono poi particolarmente attaccati alla favola della meritocrazia, che come qualsiasi narrazione legata a dei valori non viene mai affrontata esplicitamente e sistematicamente in questi giorni.


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L’ultima notte, quella in cui abbiamo visto il video di Steve Jobs, andiamo a dormire alle cinque e ci diamo appuntamento alle nove. Il ragazzo che deve fare il discorso del nostro pitch si sveglia tardi, ci raggiunge e incomincia a provare nervosamente il discorso. Ha fame e gli porto un piatto di biscotti che tengo con la mano perché lui possa pescarne mentre ripete. Intanto gli altri due membri del team lo ascoltano e lo correggono, ma a lui continuano a sfuggire le parole. Lascio il piatto e vado a raccogliere dei denti di leone, che lego insieme con un filo di paglia. Infilo il mazzetto nel taschino della camicia Ralph Lauren del ragazzo che all’ultimo sostituirà quello designato per fare il pitch; lui però lo tira fuori subito perplesso, e io me lo riprendo.
 Le mie parole per loro non sono efficaci, non suonano precise, solo ridondanti e pretenziose: «ok, ma ora non dobbiamo scrivere un libro», mi dicono quando propongo delle modifiche. E se non hanno effetto, non serve a niente che io le abbia scelte con cura, che a me suonino perfette. Vige un altro codice qui, il mio non vale, e d’un tratto mi prende una nostalgia fortissima, che non so se è nostalgia come quella che mi è presa in questi giorni di sentire musica dal vivo, o è solo nostalgia del potere che esercitavo su persone e cose quando le nominavo e queste mi rispondevano.

martedì 9 settembre 2014

Lavorare con i libri, l'esperienza di due editori.

Torna il workshop Lavorare con i libri, a cura di Marco Cassini e Pietro Biancardi
Qui il racconto apparso su Editorintour della prima avventura a Venezia, nella mitica libreria Marco Polo, una primo incontro sui temi del lavoro editoriale, da cui poi è nata l'idea di costruire un corso che quei temi li approfondisse meglio.
Il workshop, dopo le edizioni di Venezia e di Pavia, torna a Roma, il 20 e 21 settembre 2014.
(la polenta sarà sostituita da un piatto più sureño)


di Pietro Biancardi


Il libraio Claudio Moretti sembra la personificazione del più citato verso di John Donne, e sì che vive e lavora a Venezia. La giornata passata in sua compagnia servirà a chiarire cosa intendiamo.
IMG_8957Avevamo deciso di andare all’inaugurazione della mostra-concorso Arte Laguna, e così abbiamo fatto sapere a Claudio che di lì a poco avremmo colto l’occasione per andarlo a trovare. Nel giro di soli cinque giorni è riuscito a organizzare, in un orario un po’ improbabile e per di più nel suo abituale giorno di chiusura, un incontro-conversazione su temi sempre attuali del mondo editoriale (il prezzo e il valore dei libri, come affrontare in maniera creativa la crisi, cosa significa davvero oggi essere “indipendenti”) e siamo rimasti felicemente stupiti quando abbiamo visto raccogliersi negli angusti spazi creativi della Marco Polo una trentina di persone curiose, interessate, desiderose di partecipare, ascoltare, argomentare e condividere i propri punti di vista. Senza saperlo, era già una prima, efficace risposta ad alcuni degli interrogativi su cui eravamo chiamati a confrontarci.
Nell’epoca in cui ascoltiamo con sempre maggior frequenza pessimistici e a volte oziosi discorsi sull’effetto negativo dei social network sulla reale socialità, questa libreria di Cannaregio ha dato dimostrazione di saper creativamente divenire punto d’incontro nella città. Qui davvero nessun lettore è un’isola. Alla Marco Polo vengono – per incontrarsi! e comprare libri! – non solo gli appassionati di libri e letteratura, ma gli amanti della fotografia (i laboratori tenuti da Marc De Tollenaere sono un appuntamento fisso ormai da diversi anni) e quelli col pallino della musica (c’è anche un corso di armonica, tenuto da Paolo Ganz); la libreria ospita due volte al mese gli incontri dell’associazione Donne di Carta; è una sorta di nirvana per chiunque voglia scandagliare gli scaffali degli «introvabili» (circa metà della superficie è destinata all’usato, sia in italiano che in lingua, con largo spazio alla narrativa angloamericana, ma con alcuni scaffali di libri tedeschi e francesi); ed è perfino punto di consegna per i prodotti biologici di un’azienda agricola locale. Non a caso, il libraio ha dichiarato (forse con un certo intento polemico, o forse semplicemente con giusto spirito d’osservazione): «Una piccola libreria indipendente ha più tratti in comune con una piccola azienda agricola biologica che con una libreria di catena. Un libraio indipendente e un agricoltore biologico non possono competere sul prezzo, non ne hanno la capacità né finanziaria né di dimensione; fanno fatica a dimostrare a parole la differenza fra acquistare da loro e dalla grande distribuzione, bisogna che la gente lo provi di persona; si occupano entrambi di alimenti sani, per la mente e per il corpo».
La sua libreria-orto è molto selettiva. Del resto, sul sito della Marco Polo, in maniera laconicamente diretta la pagina «Chi siamo» afferma: «Data la quantità di titoli che annualmente vengono pubblicati in Italia, è impossibile per una piccola libreria indipendente avere tutte le novità. Abbiamo deciso quindi di tenere solo quello che ci piace». Segue l’elenco di appena una decina di marchi editoriali indipendenti, i prescelti da Claudio per il suo felice «esperimento».marcopolo
È domenica mattina, e Claudio ha allestito su una cassapanca all’ingresso del negozio una bella colazione rifocillante: un termos pieno di caffè, del latte, due belle torte di mele già affettate e, per i più avventurosi, due bottiglie di vino bianco e dei taralli.
Il pubblico è costituito da un meraviglioso mix di interessi e vicende personali – come dev’essere ogni pubblico, del resto, ma qui c’era molta voglia di raccontarsi, e così abbiamo potuto scoprire chi avevamo di fronte: (tra gli altri) uno studente di cinese che ci consiglia la pubblicazione di un romanzo contemporaneo introvabile; un produttore cinematografico romano con la passione per la poesia; il direttore artistico di un teatro di ricerca; un ex libraio californiano che ora vive a Venezia e fa lo scrittore; un ex libraio veneziano – animatore della gloriosa Patagonia – che ora vive di organizzazione di eventi; uno studente (anche lui americano) che vive e studia in Italia e vorrebbe tradurre la nostra narrativa per il mercato statunitense; e così via.
La mattinata inizia commentando le pagine culturali dei quotidiani e degli inserti culturali domenicali: è bastata un’occhiata alle classifiche di vendita per immaginare che non saremmo sfuggiti a una riflessione su cause ed effetti del lancio della collana a 0,99 euro. E un articolo che riportava gli sconfortanti dati presentati dall’Istat sul disastroso stato della lettura in Italia (oltre il 50% della popolazione dichiara di non aver letto nemmeno un libro negli ultimi dodici mesi) ci ha costretti a dibattere sul (o dibatterci nel?) significato stesso dei nostri mestieri: editori, librai in un paese dove sembriamo essere superflui. Avevamo programmato di parlare poco più di mezz’ora ma le sollecitazioni, le domande, gli spunti del pubblico sono stati così tanti che senza rendercene conto si è fatta l’ora di pranzo.
ricetta-polenta-facile-08Il vivace scambio di opinioni e considerazioni è proseguito ancora di fronte al piccolo buffet dove, data l’ora, si è passati decisamente ai proverbiali tarallucci e vino, per concludere la mattinata in armonia. A seguire, Claudio ci ha portato a mangiare in un ristorante in cui sembra essere di casa e dove, assaporando polenta con (pietanza per noi inedita) salame cotto nell’aceto balsamico e un’ottima grigliata mista di pesce, abbiamo ascoltato il suo nuovo progetto. È un po’ folle e proprio per questo ci conquista: vuole aprire entro l’anno una nuova libreria, con una metratura molto più grande dell’attuale, che permetta un’ulteriore investimento sull’offerta formativa; ospiterà sempre marchi indipendenti, riuscendo però ad allungare la lista degli editori selezionati. I capitali per partire? Ovviamente non ci sono, ma Claudio ha in mente una forma di finanziamento partecipativo (crowdfunding), ed è così convinto da risultare convincente. Noi siamo già qui che brindiamo alla nuova Marco Polo!
Non possiamo che fargli i nostri più sinceri auguri, certi che la prossima volta ci vedremo nella nuova sede. Un’isola in più nell’arcipelago di meravigliose librerie di cui stiamo disegnando la mappa con i nostri viaggi in giro per l’Italia.

venerdì 4 luglio 2014

La mattina del giorno in cui mio padre, a tarda sera, morì d'infarto

di Alessandro Giovannelli




Alessandro Giovannelli è un allievo della scorsa edizione del laboratorio di non fiction (e allievo della nuova edizione del corso biennale di scrittura): questo testo è un estratto dal suo lavoro finale, che è stato pubblicato in Granturismo, il numero 66 di Nuovi Argomenti.

Mio padre era Alessandro Del Piero. Io sono Alessandro Del Piero. Non c’è soltanto il nome che accumuna me ad ADP, o il fatto che abbia sognato più volte ADP vestito da partita aggirarsi per casa e interpretare in tutto e per tutto il ruolo di mio padre. Ci sono le coincidenze, le sofferenze, l’espiazione. L’ultima volta che ho sognato ADP, lui mangiava da solo in un ristorante in un piano alto di un edificio brutto, in mattoni rossi da periferia inglese. Un tavolino in penombra, proprio all’ingresso del ristorante. Aveva indosso un insolito maglione di cotone verde acqua, con lo scollo a V. Insolito perché non so da cosa venga fuori, anche se so bene che il maglione di cotone con lo scollo a V è la cosa che più mi piace indossare. Per il verde acqua, invece, non ho proprio appigli. Era buio, potevano essere le dieci e mezzo di sera. Del Piero mi vede e mi riconosce, ci abbracciamo tanto, come vecchi amici, come padre e figlio o padre e padre o figlio e figlio. Mi sveglio che piango.

L’estate del 2006 inizia il 10 di giugno nel pomeriggio e finisce il 15 a mezzanotte. Prima: l’esame di diritto internazionale, la racchetta da tennis Wilson modello Roger Federer regalata da mio padre e appoggiata sul letto di camera, Moggi in Rai che dice Mi avete rubato l’anima, la coppa dello Scudetto alzata con le maglie rosse. Dopo: la serie B.

Trascorsi quei giorni in un camper troppo grande per quattro persone, vedendo Italia-Ghana in una pizzeria di Mentone (chiedendomi poi per ore se Vincenzo Iaquinta fosse davvero il centravanti più forte che Lippi avesse portato ai Mondiali, che Toni e Gilardino non hanno quella corsa, che poi in realtà non era neanche centravanti, Iaquinta, ma forse più un esterno da 4-3-3), bisticciando per chi avesse finito l’acqua della doccia, chiamando Alice raramente. Adesso mi pento di quello che ho fatto in quei cinque giorni, perché tutto quello che accade prima della catastrofe causa la catastrofe, e voglio chiedervi scusa: Alice, scusa, Tommaso, scusa, l’acqua della doccia l’ho finita davvero io.

La mattina del 15 giugno, sulla strada del rientro, comprai «La Gazzetta dello Sport» e lessi che il nuovo allenatore della Juventus sarebbe stato Alberto Zaccheroni. Non era vero, ma non potevo saperlo. Volevo dirlo a mio padre, comunque. Lo chiamai in orario di lavoro, sul cellulare, almeno dieci volte, non rispose. Facemmo il bagno a Recco, in una pozza di mare verde blu scurissima e fredda.

Alberto Zaccheroni nel 2006 non era ancora l’allenatore riabilitato dalla seconda vita da commissario tecnico del Giappone; e non era certo più l’allenatore del miracolo Udinese e dello scudetto del Milan con Bierhoff capocannoniere. Era fermo da due stagioni, dopo un passaggio all’Inter pre Calciopoli, quindi disastroso. (Zaccheroni, dopo Udine e dopo lo scudetto col Milan della rimonta sulla Lazio, si era fatto esonerare da Berlusconi quasi al termine della stagione 2000-2001, poi aveva preso proprio la Lazio a campionato iniziato e l’aveva portata in Uefa, ma alla fine della stagione Cragnotti gli aveva preferito Mancini. Stessa scelta che farà due anni dopo Moratti, lasciando Zac a piedi alla fine del campionato 2003-2004.) Insomma, Zaccheroni era fermo ed era tanto che non suscitava più alcun entusiasmo.

Mi ricordo bene di aver letto quell’articolo quella mattina: ossia la mattina la cui sera sarebbe poi stata quella sera. Sono convinto, insomma, di aver letto «La Gazzetta dello Sport» che dava Zaccheroni sulla panchina della Juventus che avrebbe fatto la B dal settembre 2006 esattamente la mattina del 15 giugno 2006. A Recco, comprata in edicola e non letta in un bar.

Ma una ricerca mi dà un risultato diverso. Sul giornale del 15 giugno in effetti c’è un articolo che parla della Juventus (raramente, certo, «La Gazzetta dello Sport» non ha almeno un articolo sulla Juventus, anzi, potrebbe anche essere che da un numero di anni importante, mettiamo venti, ogni numero del«La Gazzetta dello Sport» abbia pubblicato almeno un articolo sulla Juventus), ma non direttamente dell’allenatore. Anzi, in merito, riporta proprio una dichiarazione di John Elkann, fresco presidente, all’uscita di quello che doveva essere stato un Cda numero zero del nuovo corso, all’interno di un articolo che principalmente rende noti gli assetti societari. Dice J.E.: «È un fatto positivo per noi che tanti candidati si stiano proponendo. Ma né Donadoni né Deschamps né Zaccheroni lo hanno fatto». Aggiunge il giornalista: «L'allenatore sarà comunque uno di questi tre». E sarà infatti Didier Deschamps. Quello che voglio dire, però, è questo: che per otto anni ho creduto di aver letto che Zaccheroni sarebbe stato il nuovo allenatore della Juventus la mattina del giorno in cui mio padre, a tarda sera, morì d’infarto a neanche cinquantaquattro anni, in bagno, con indosso credo forse solo poche cose e da gioco, si stava per fare una doccia, rientrando da una partita di calcio a sette (o a undici, non so) con degli amici o dei colleghi, ma non era vero. Quell’articolo, «La Gazzetta dello Sport» lo ha pubblicato il giorno prima, il 14 di giugno del 2006 e allora era quella la mattina in cui io cercavo mio padre per il solo puntiglio di dirgli Pronto, cercavo Zaccheroni, e farlo sorridere. Il 15 giugno, Zaccheroni era dato come papabile in una rosa di tre nomi: il giorno prima, quello in cui lessi «La Gazzetta dello Sport», a questo punto forse in un bar e non comprandola in edicola, aveva secondo il giornalista già firmato un biennale da un milione e mezzo di euro a stagione.

Devo averlo richiamato, allora, mio padre, per lo meno la sera del 14 giugno o addirittura nella giornata del 15, ma non mi ricordo, sedimentato come avevo, in questi otto anni, l’idea di una telefonata mancata nel suo ultimo giorno di vita.

Mi ricordo la sera del 15 giugno, a cena, prima di cena. Io stavo uscendo ma mangiai qualcosa a tavola, Andrea no, che doveva andare a giocare a pallone. Di Svezia-Paraguay mi ricordo le gambe di Ibrahimovic inquadrate nel riscaldamento prepartita e io che dico Eccolo, si riconosce subito e lui che ride e io che per scherzo gli tiro dei cazzotti sulle spalle1 in cucina. Il 15 giugno 2006, dunque, all’ottantanovesimo di Svezia-Paraguay, segna Fredrik Ljungberg, ventinovenne capitano della nazionale, in forza all’Arsenal, non nella sua stagione migliore in Premier, di testa, in corsa, su una torre di un compagno che aveva raccolto un cross dalla tre quarti destra. Festa grande degli svedesi sugli spalti, a Berlino, telecamere che indugiano su tutto quel giallo. Ibrahimovic era stato sostituito con Allbäck alla fine del primo tempo per un problema fisico. Mio padre era tornato in casa in quel momento, senza vedere il gol, presumo, era entrato in bagno e caduto a terra, o si era accasciato per il dolore al petto, o sdraiato tra il water e il bidet, felpa azzurra di Georgetown con il cane sul davanti che aveva regalato a me anni prima un cugino portandola dall’America, felpa azzurra su pavimento in piastrelle bianche quadrate su carnagione olivastra, progressivamente più bianca, immagino.

Del Piero contro il Ghana giocò otto minuti, poi ne nacque una polemica, sfociata in una litigata con un ragazzino del Duisburg in allenamento e nel suo autodefinirsi Achille che prima della battaglia aspetta in collina e guarda gli altri per studiarne le mosse e agire più efficace una volta sceso in campo, insomma un modo per dire che stava in panchina e non si sentiva escluso, ancora. Ma quella cosa di Achille forse era prima dell’esordio e degli otto minuti.

Alessandro Del Piero ha perso il padre quando aveva ventisette anni da compiere, io quando ne avevo già compiuti ventiquattro. I giornali parlarono di grave lutto.
Tutte le volte che lo sogno, Del Piero ha la stessa età indefinita e mi sembra sempre più grande di me. Lo sognai che mi aspettava sulle scale di casa, vestito da gioco, maglietta a strisce, calzoncini, calzettoni, parastinchi e fascia di capitano gialla e blu. Mi aspettava in cima ai quattro gradini di pietra serena, retti da una ringhiera in ferro battuto dipinta di rosso mattone scuro, io che arrivo dal vialetto coi sassi, lui enorme e fermo come una statua.

Al Mondiale del 2002 entra, a partita iniziata e compromessa, contro il Messico e di testa segna il gol decisivo per il passaggio del turno, su cross di Montella. Esulta di rabbia, indica il cielo con l’indice, ha dei baffi a gangster che non gli donano. Bruno Pizzul, in telecronaca, ripete tre volte Gol di Del Piero, poi dice «Proprio Del Piero, quello che non giocava mai».
Ma non era quello il punto, non era quello l’anno, il 2002, mi mancavano ancora quattro anni di università, quattro anni di rientri in macchina verso casa parlando di politica, di identificazione senza conflitto.

Mi ricordo la corsa sul vialetto di casa: prima un pezzo lastricato in pietra serena dai tagli irregolari e in leggera pendenza (scesi i quattro gradini) poi venti metri di sassi fino al cancello in ferro battutto, arricciolato e nero, fatto a mano dal padre di mia madre, Ortenzio con la z, fabbro comunista, in tutto e per tutto esemplare delle sorti della classe media italiana, compreso l’unico figlio maschio che sperpera e rovina l’accumulo di cinquant’anni di lavoro, ex mogli, donne e Volvo negli anni Ottanta.

Il 4 luglio 2006 l’estate era già finita da diciannove giorni, mio padre avrebbe avuto cinquattaquattro anni e due giorni appena, sarebbe stato in casa per lo meno dalle otto e mezzo di sera. Appena Gilardino, in area e di profilo alla porta, con i tedeschi addosso, gira a sinistra un pallone che si è portato diciamo dalla metà campo, correndo nel vuoto di una difesa sfilacciata dopo un passaggio di Perrotta che aveva ripreso palla scontrandosi con Cannavaro, che veniva da una cosa quasi incomprensibile, tipo un colpo di testa a spazzare nell’area (la sua) e un recupero di quella stessa palla dieci metri più avanti, prima che toccasse terra, dopo esser scivolato ed essersi rialzato, dopo il cannavaro! cannavaro! di Caressa, ecco, appena Gilardino in area di rigore e con i tedeschi tanti e tutti addosso gira la palla con quello che sembra un tacco e invece no, è una cosa ancora più difficile, un passaggio no-look da basket americano, ecco, io ero lì, arrivavo dalla fascia sinistra, il numero sette sulle spalle, niente baffi, capelli a zero, arrivavo e mi ricordavo tutti i gol sbagliati da quella posizione, la finale con la Francia ad Euro 2000, per esempio, però rimanevo in piedi, gli amici attorno, la mamma ancora scossa, tutti al mio capezzale perché in fondo ero quello ammalato, ero io la vittima, io il convalescente che dimagriva e mentre ero in piedi e fermo riesco a fare una cosa incredibile, ad impattare la palla con l’interno del destro senza smettere di correre e ad alzarla forte e secca verso il palo opposto, come i gol che facevo a vent’anni, ma senza tutta quella riflessione, senza morbidezza alcuna, i giri di parole, il dribbling. Esco scalzo, salto le scale in pietra serena, corro verso il cancello, ci sbatto contro, urlo sì cazzo, no cazzo, alzo una sdraio di plastica dura, di quelle da giardino, ripiegata, la spacco in terra, urlo no cazzo sì. È passata, è finita, arriva Perrotta, Gilardino, mia madre che piange, Marcello Lippi che si sistema il colletto della polo sudata, andiamo, è finita, Tommaso sulle scale in silenzio, i caroselli per le strade.

1. Un cazzotto, per la verità, ricordo di averlo tirato anche sul petto, altezza del cuore, certo, va bene, non ci voglio pensare.

domenica 22 giugno 2014

Dietro le quarte, o della pausa sigaretta di aspiranti editoriali


La sesta edizione del Lavoro editoriale è arrivata alla fine.
Questa è una piccola introduzione, un rullo di tamburi per la grande festa di fine corso: festeggeremo non solo la chiusura delle lezioni ma anche un progetto editoriale curato in tutto e per tutto dai nostri allievi. Si chiuderà un ciclo, si brinderà a qualcosa, si ascolterà buona musica, e si assisterà all'anteprima di un progetto sull'umana bellezza e sul disumano delirio del lavoro editoriale
Andate avanti a leggere e segnatevi data, luogo e ora. 




di La leva editoriale del 2014


Oggi pomeriggio ero in pausa sigaretta con Chiara, Claudia P., Mafalda e non ricordo chi altri, tutti un po’ sulle gambe data l’afa opprimente degli ultimi giorni. Più esattamente, io stavo a gambe divaricate in posizione aquagym, mentre gli altri si erano aggrappati a qualche stipite o a un incavo nel muro del vecchio palazzo Sur, provando a non caracollare. L’altro giorno Sara ci era pure svenuta, per le scale, e giù di acqua e zucchero. Rachele era seduta in tuta sul gradino e tutti insieme stavamo parlando di questo pezzo che sto scrivendo ora.
Facciamo pausa sigaretta tutti giorni alle cinque. È un po’ peggio delle sette quando si esce dalla redazione perché siamo già tutti stanchi dei tanti stimoli della giornata, ma non sufficientemente da voler salire nella mia macchina e tornare a San Lorenzo a bere birrini per dimenticare. Di norma le cinque di pomeriggio, se Rachele è di buon umore, è il momento in cui il nostro ego si è espanso in tutta la sua misura ed è pronto a sgonfiarsi, quindi si boccheggia e si aspetta che ci scenda la tensione. Lo stesso dispositivo – l’ego retrattile – può essere applicato alla durata del corso che abbiamo seguito quest’anno a minimum fax: forse si intuisce, ma la terza settimana di giugno non è un bel momento. A conferma della teoria, ecco spuntare Marco Cassini, che sornione ci chiede come stiano andando i nostri esami di maturità. Dopo aver risposto sagacemente allo scherzo, rimaniamo qualche altro minuto davanti a Sur, e continuiamo a fumare fissando un punto imprecisato dei Fori Imperiali. In questo ennesimo momento di grande solennità a cui a minimum fax ci hanno educati, mi dico che no, non se ne parla di scrivere un pezzo di fine corso in stile notte-prima-degli-esami, o peggio, in stile ultimi-giorni-di-gita-scolastica, non cadrò nel tranello come gli altri ex corsisti: parlerò di tutte le cose che abbiamo fatto negli ultimi mesi e ne illustrerò mirabilmente i risultati.

Ed eccoci. Vi lascerò intendere che molto, moltissimo andrebbe raccontato, oltre alle pause sigaretta al limite dello svenimento e della commozione, sottintendo che stiamo diventando dei professionisti, che siamo una squadra infallibile, che il nostro ego ha cambiato più volte forma e dimensione perché si sta modellando su un progetto, su delle idee e delle pratiche, ma tutte queste cose, temo, non possiamo spiegarvele giusto oggi, alla terza settimana di giugno, visto che abbiamo un sacco da lavorare, le ultime ore da corsisti stanno dando finalmente i frutti sperati, e pur sempre di ultime ore si tratta, con il meteo che è così ostile e suona la sua nota dolente.




Ebbene, il consiglio è quello di venirci a trovare sabato 28 giugno al Klamm, in via Antonio Raimondi, 59a partire dalle 19, in un clima di gioiosa e accorata distensione. È la nostra festa post-esami, la nostra festa fine-della-gita, quindi si balla (il rock’n’roll), si beve insieme (la cedrata), ma si parla finalmente di lavoro editoriale, che è la cosa importante che abbiamo fatto tutti i giorni ossessivamente per più di quattro mesi e che ci ha portati a mettere in piedi questa cosa qui. Ve la presentiamo in anteprima; voi non mancate, siete tutti invitati. In alternativa, ci trovate ogni giorno alle cinque, ancora per un po’, a fumare contro i Fori Imperiali, in attesa che l’appello risuoni anche per noi.